Sarà perché quando si commenta sui social ci si sente “protetti” da monitor, tastiera o smartphone.
Sarà perché si pensa che sui social si possa dire qualsiasi cosa, tanto… “che vuoi che sia?”
Sarà per ignoranza.
Sarà per maleducazione.
Sarà per spavalderia.
Sarà perché non tutti hanno ben chiaro il confine tra il diritto di critica e l’invettiva, quando non la minaccia (?!).
Quali che siano i motivi, di fatto quasi ogni giorno assistiamo a comportamenti, da parte degli utenti, di grande leggerezza e superficialità e potenzialmente tali da comportare conseguenze legali anche molto serie per gli incauti “leoni da tastiera”.
Spesso e volentieri, magari messi in guardia da qualcuno, i nostri simpaticoni procedono poi alla cancellazione del commento o del post; ma sbaglia di grosso chi ancora non abbia compreso che di tutto resta una traccia indelebile perfettamente percorribile – ad esempio – dalla Polizia Postale qualora venga aperta un’indagine.
Il reato di diffamazione ha già, di per sé, rilevanza penale. Poiché i social vengono equiparati ai quotidiani, si può configurare addirittura la diffamazione a mezzo stampa (art. 595 Codice Penale). Parliamo della possibilità di reclusione fino tre anni e di sanzioni economiche superiori ai 2.000 €. Le pene possono essere aumentate se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio.
Ma il quadro peggiora decisamente e ulteriormente quando si insulta il Presidente della Repubblica. Le fattispecie dell’art. 595 si combinano, infatti, con l’art. 278 del Codice Penale: Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Tanto per fare qualche esempio,
Libertà di pensiero, dunque, e anche di espressione. Ma vi sono dei limiti che non debbono mai essere superati. Nella vita reale come in quella virtuale.
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